Aggiornamento giurisprudenziale

 

Questa sezione, aggiornata con cadenza settimanale, rappresenta un prezioso strumento di approfondimento per gli studiosi e i professionisti del diritto. Al suo interno vengono raccolte e selezionate le sentenze di maggior rilievo nelle principali aree giuridiche, tra cui il diritto civile, penale, amministrativo e tributario.
L’obiettivo è offrire un quadro costantemente aggiornato sull’evoluzione della giurisprudenza, mettendo a disposizione degli utenti un repertorio di decisioni significative, utili per la preparazione accademica, l’attività concorsuale e l’esercizio della professione legale.
Alcuni contenuti della sezione sono riservati esclusivamente ai corsisti, garantendo loro un accesso privilegiato a materiali di studio e approfondimenti di alto valore scientifico.

 
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SENTENZE SELEZIONATE PER LA SETTIMANA IN CORSO:

DIRITTO CIVILE
RISOLUZIONE- DOMANDA DI RESTITUZIONE 

 Massima
La risoluzione del contratto, pur comportando - per l'effetto retroattivo sancito dall'art. 1458 c.c. - l'obbligo del contraente di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice ad emettere il provvedimento restitutorio in assenza di domanda dell'altro contraente, atteso che rientra nell'autonomia delle parti disporre degli effetti della risoluzione, chiedendo, o meno, la restituzione della prestazione rimasta senza causa".
Ove i rispettivi debiti e crediti abbiano origine da un unico - ancorché complesso - rapporto, non vi è luogo ad una ipotesi di compensazione "propria", bensì ad un mero accertamento di dare e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza (compensazione "impropria" o atecnica), cui il giudice può procedere senza che siano necessarie l'eccezione di parte o la domanda riconvenzionale, sempre che i controcrediti oggetto di tale operazione contabile siano stati fatti valere in giudizio, deducendone tempestivamente i requisiti fattuali (ossia le ragioni su cui essi si innestano) ed esprimendo l'intenzione di azionarli.

Ricognizione
La fattispecie riguarda un contratto preliminare di compravendita, rimasto inadempiuto dal promissario acquirente che, convenuto in giudizio, solleva l'eccezione di inadempimento, pur essendo rimasto nella disponibilità anticipata dell'immobile di cui ha goduto.
Accertato l'inadempimento e pronunziata la risoluzione, la sentenza affronta la questione relativa agli obblighi ed al loro rapporto con la domanda restitutoria.

Il giudizio di legittimità
Preliminarmente, la Corte di Cassazione affronta la questione se l'eccezione di inadempimento non sia idonea a paralizzare la contrapposta domanda di risoluzione.
Solo nel caso di domande contrapposte di risoluzione del contratto per inadempimento deve essere compiuta una valutazione comparativa ed unitaria degli inadempimenti.
Nel caso di specie era stata dimostrata la prevalenza dell'inadempimento del promissario acquirente, il cui rifiuto di procedere alla stipula del definitivo sembrava ispirato al fine di procrastinare il pagamento del dovuto, accampando l'esistenza di difformità e difetti che, nell'economia del contratto, non incidevano in maniera determinante. Dunque, i vizi pur accertati non legittimavano causalmente e proporzionalmente la sospensione dell'adempimento dell'altra parte.
D'altra parte, l'eccezione di inadempimento non è subordinata alla presenza degli stessi presupposti richiesti per la risoluzione, in quanto la gravità dell'inadempimento è un requisito specificamente previsto dalla legge per la risoluzione e trova ragione nella radicale definitività di tale rimedio, mentre l'eccezione d'inadempimento non estingue il contratto.
Altra questione è se la pronuncia di risoluzione del contratto preliminare di compravendita immobiliare comporti automaticamente, e pur in mancanza della natura abusiva dell'occupazione, la condanna del promissario acquirente, immesso nell'immobile con il consenso della promittente alienante, a corrispondere a quest'ultima l'equivalente pecuniario dell'uso e del godimento del bene, a far data dall'immissione effettiva nell'immobile.
In realtà, sul piano contrattuale, venendo meno la causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite per effetto della risoluzione per inadempimento, era insorto, a carico di ciascun contraente, l'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta, indipendentemente dall'imputabilità dell'inadempimento.
I profili sistematici sono due:
  • da una parte, il promissario acquirente inadempiente provoca la risoluzione del contratto preliminare, è tenuto al “risarcimento del danno” in favore della parte promittente venditrice, atteso che la legittimità originaria della detenzione viene meno a seguito della risoluzione, lasciando che l'occupazione dell'immobile si configuri come sine titulo. Consegue che tali “danni”, originati dal lucro cessante per il danneggiato che non ha potuto trarre frutti né dal pagamento del prezzo né dal godimento dell'immobile, sono legittimamente liquidati dal giudice di merito, con riferimento all'intera durata dell'occupazione e, dunque, non solo a partire dalla domanda giudiziale di risoluzione contrattuale;
  •  dall'altra parte, non si tratta di danno da occupazione in re ipsa, posto che l'efficacia retroattiva della risoluzione per inadempimento di un contratto preliminare comporta l'insorgenza, a carico di ciascun contraente, dell'obbligo di restituire le prestazioni ricevute, rimaste prive di causa, secondo i principi della ripetizione dell'indebito ex art. 2033 c.c., e, pertanto, implica che il promissario acquirente che abbia ottenuto la consegna e la detenzione anticipate del bene promesso in vendita debba non solo restituirlo al promittente alienante, ma altresì corrispondere a quest'ultimo i frutti per l'anticipato godimento dello stesso. Consegue che, nel caso di occupazione di un immobile fondata su un titolo contrattuale venuto meno per effetto della risoluzione giudiziale del contratto, va esclusa la funzione risarcitoria degli obblighi restitutori.

Dunque, all'obbligo di restituire la prestazione ricevuta si associa, nel caso in esame di cosa fruttifera, all'obbligo di restituire i relativi frutti, naturali o civili, ovvero, qualora di essi non sia possibile la restituzione, di corrispondere l'equivalente in danaro, dal giorno dell'ottenuta disponibilità. È il godimento in sé del cespite – rivelatosi illegittimo con efficacia retroattiva all'esito della declaratoria di risoluzione del preliminare di vendita – a giustificare che alla restituzione del bene si accompagni il riconoscimento dei frutti indebitamente percepiti.
Altra questione risolta dalla Cassazione è se il giudice può d'ufficio, in assenza di domanda di parte, riconoscere il diritto del promissario acquirente ad ottenere la restituzione della somma pecuniaria, oltre interessi legali dalla data del pagamento ex artt. 1282,1458 e 2033 c.c., nonché disporre d'ufficio la compensazione c.d. impropria tra i crediti delle parti, a prescindere dalla domanda creditoria di parte, dichiarando estinti per compensazione i rispettivi crediti delle parti, sino alla reciproca concorrenza.
Al riguardo la Suprema Corte evidenzia che:
  • la risoluzione del contratto, pur comportando – per l'effetto retroattivo sancito dall'art. 1458 c.c. – l'obbligo del contraente di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice ad emettere il provvedimento restitutorio in assenza di domanda dell'altro contraente, atteso che rientra nell'autonomia delle parti disporre degli effetti della risoluzione, chiedendo, o meno, la restituzione della prestazione rimasta senza causa;
  • senza la domanda di parte, non può disporsi la compensazione impropria o atecnica, pur avendo origine i rispettivi debiti e crediti da un unico – ancorché complesso – rapporto:
  • se – per un verso – in tali casi non vi è luogo ad una ipotesi di compensazione “propria”, bensì ad un mero accertamento di dare e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, cui il giudice può procedere senza che siano necessarie l'eccezione di parte o la domanda riconvenzionale;
  • per altro verso – tale operazione contabile non può essere effettuata con riferimento a controcrediti che il creditore non abbia fatto valere in giudizio, deducendone tempestivamente i requisiti fattuali (ossia le ragioni su cui essi si innestano) ed esprimendo l'intenzione di azionarli.

Concludendo, secondo la Cassazione, quest'ultima affermazione non è assoluta e viene precisata:
 - «la risoluzione del contratto, pur comportando – per l'effetto retroattivo sancito dall'art. 1458 c.c. – l'obbligo del contraente di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice ad emettere il provvedimento restitutorio in assenza di domanda dell'altro contraente, atteso che rientra nell'autonomia delle parti disporre degli effetti della risoluzione, chiedendo, o meno, la restituzione della prestazione rimasta senza causa».
- «Ove i rispettivi debiti e crediti abbiano origine da un unico – ancorché complesso – rapporto, non vi è luogo ad una ipotesi di compensazione “propria”, bensì ad un mero accertamento di dare e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza (compensazione “impropria” o atecnica), cui il giudice può procedere senza che siano necessarie l'eccezione di parte o la domanda riconvenzionale, sempre che i controcrediti oggetto di tale operazione contabile siano stati fatti valere in giudizio, deducendone tempestivamente i requisiti fattuali (ossia le ragioni su cui essi si innestano) ed esprimendo l'intenzione di azionarli».

Esito
La corte cassa con rinvio.


 
CONTRATTO DI APPALTO- APPALTATORE NUDUS MINISTER
 

Massima
In materia di appalto, l'appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle.

Ricognizione
I proprietari di un fabbricato, confinante con un'area su cui era stato realizzato un manufatto residenziale, avevano citato in giudizio il titolare di impresa edile lamentando che, nell'ambito dell'attività di costruzione, era stato realizzato uno scavo con palificazione che aveva provocato fessurazioni e crepe nel fabbricato di loro proprietà, e per le quali avevano chiesto il risarcimento dei danni. Il titolare dell'impresa aveva a propria volta agito nei confronti dell'appaltatore al quale aveva affidato i lavori di scavo e palificazione, per essere tenuto indenne di quanto eventualmente condannato a pagare. Veniva, tuttavia confermato anche nel giudizio di secondo grado «il rigetto della domanda di manleva proposta dagli appellanti nei confronti dell'appaltatore».

Il giudizio di legittimità
L'appalto viene classificato come un contratto a prestazioni corrispettive tra l'oggetto dell'obbligazione principale dell'appaltatore consistente nell'esecuzione di un'opera o un servizio ed il pagamento del prezzo dovuto dal committente.
A norma dell'art. 1655 c.c. l'appaltatore è «la parte che si assume, con organizzazione dei mezzi necessari ed a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio (…)».
La norma puntualizza, quindi, le principali caratteristiche che devono caratterizzare il modus operandi dell'appaltatore nell'adempimento dell'obbligazione di fare: «organizzazione di mezzi necessari» da un lato e «gestione a proprio rischio» dall'altro.
Elementi, questi, che costituiscono declinazioni del requisito fondamentale caratterizzante la figura dell'appaltatore sul piano soggettivo: l'“autonomia”, intesa come la totale padronanza dell'appaltatore nell'organizzare e regolare lo svolgimento del lavoro finalizzato all'esecuzione dell'opera.
Diversamente, il termine "nudus minister" si riferisce all'appaltatore che, durante l'esecuzione dei lavori, sia stato privato della libertà di decisione e di determinazione direttamente dal committente.
Secondo quanto riferito dall'art. 1667 c.c. «l'appaltatore è tenuto alla garanzia per i vizi e le difformità dell'opera». Sul punto consolidata giurisprudenza ritiene che, nel caso in cui l'appaltatore non raggiunga il risultato sperato dal committente - realizzando un'opera con dei difetti - lo stesso è da considerarsi ex lege inadempiente sulla base di una presunzione di colpevolezza del tutto analoga a quella di cui all'art. 1218 c.c., mentre il committente matura la possibilità di esercitare l'azione di garanzia secondo le modalità ed i termini di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c.
L'art. 1667 c.c. non trova applicazione qualora il committente si sia ingerito talmente nell'esecuzione dell'opera da ridurre l'appaltatore a nudus minister, ovvero abbia incaricato di detta esecuzione un'impresa che egli sapeva priva delle capacità tecniche ed organizzative necessarie (Cass. n. 11149/2003).
Il Collegio giudicante di legittimità ha considerato insufficienti le motivazioni della Corte d' Appello alla base del rigetto della domanda di manleva: la mancata predisposizione del progetto geotecnico e la mancata attivazione della procedura di nomina di un collaudatore strutturale non costituiscono di per sé motivazioni rilevanti ai fini della valutazione della responsabilità dell'appaltatore, considerata «l'assenza dell'allegazione, prima ancora che della prova, ad onere dell'appaltatore stesso, di limiti stringenti alla libera operatività imprenditoriale posti dalla committenza e alla comunque intervenuta segnalazione, da parte sua, di carenze documentali e progettuali pur evidenti».
In materia di appalto, stante il disposto dell'art. 1176, comma 2 c.c., l'appaltatore ha l'obbligo di realizzare l'opera oggetto del contratto a regola d'arte, impiegando le energie ed i mezzi normalmente ed obiettivamente necessari od utili in relazione alla natura dell'attività esercitata.
Pertanto - argomentano i Giudici di legittimità - dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, egli è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente. Ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest'ultimo.
Ne deriva che l'appaltatore, in mancanza di tale prova, è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all'intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell'opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l'efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori (cfr. Cass. n.777/2020).

Esito
La Corte di Cassazione ha quindi cassato la sentenza.


 
CLAUSOLA PENALE 

Massima
“La clausola penale, che costituisce una pattuizione accessoria diretta a rafforzare il vincolo contrattuale mediante una concordata e preventiva liquidazione del danno, può essere stipulata per il caso di inadempimento definitivo ovvero per il solo ritardo nell'adempimento: in questa seconda ipotesi, per espressa previsione di legge, la clausola concorre con l'adempimento dell'obbligazione cui è collegata, nel senso che continua a gravare sul debitore finché egli continui a essere obbligato ad adempiere, mentre, se e quando l’inadempimento diviene definitivo, cessa evidentemente questa sua funzione”.

Ricognizione
La società attrice propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo, ottenuto nei suoi confronti dalla creditrice per l'importo di euro 226.000,00, a titolo di penale contrattuale maturata per il ritardo nella stipula del contratto definitivo di permuta di quattro immobili, oggetto del contratto preliminare.
A fondamento dell'opposizione, dedusse che il Tribunale aveva già esaminato la fondatezza della pretesa, oggetto di diverso decreto ingiuntivo, del pagamento della medesima penale contrattuale per un periodo di ritardo diverso e rappresentò che la creditrice aveva ormai prestato sostanziale acquiescenza alla mancata stipula del definitivo; in conseguenza, la nuova richiesta di pagamento costituiva un comportamento contrario a buona fede.
Il giudizio di merito si concluse con la reiezione dell’opposizione.

Il giudizio di legittimità
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.
In giurisprudenza, si è costantemente ribadito che la clausola penale, che costituisce una pattuizione accessoria diretta a rafforzare il vincolo contrattuale mediante una concordata e preventiva liquidazione del danno, può essere stipulata per il caso di inadempimento definitivo ovvero per il solo ritardo nell'adempimento: in questa seconda ipotesi, per espressa previsione di legge, la clausola concorre con l'adempimento dell'obbligazione cui è collegata, nel senso che continua a gravare sul debitore finché egli continui a essere obbligato ad adempiere, mentre, se e quando l’inadempimento diviene definitivo, cessa evidentemente questa sua funzione.
Come rappresentato nell’atto di appello, il Tribunale in primo grado, pur avendo rimarcato la possibilità di «invitare la controparte alla stipula del contratto definitivo» e, in caso di rifiuto della stessa, di «qualificare il ritardo altrui in termini di inadempimento tali da esonerare dalla successiva corresponsione della penale ed eventualmente pervenire a pronuncia di risoluzione», non ha considerato, in fatto, lo svolgimento concreto dei rapporti intercorsi tra le parti e, in particolare, se l’invito alla stipula già formulato fosse stato infruttuoso e tale da implicare un inadempimento definitivo.

Esito
La Corte ha cassato con rinvio

 

 
DIRITTO PENALE
GUIDA SOTTO L'EFFETTO DI STUPEFACENTI E STATO DI ALTERAZIONE PSICO-FISICA

Ricognizione
Con l’ordinanza in epigrafe indicata, il GIP presso il Tribunale di Pordenone ha sollevato q.l.c. avente ad oggetto l’art. 1, co. 1, L. n. 177/2024, nella parte in cui ha soppresso dall’art. 187 Codice della strada le parole “in stato di alterazione psico-fisica per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità, uguaglianza ex art. 3 Cost., nonché dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie incriminatrice art 25 co. 2 Cost. e del principio della finalità rieducativa della pena ex art. 27 co. 3 Cost.
Nel caso di specie, ad avviso del GIP, appare manifestamente irragionevole e iniquo ritenere necessaria e sufficiente, ai fini della penale responsabilità, la mera positività del soggetto ad una determinata sostanza stupefacente, senza effettuare alcuna indagine sugli effetti di tale dato sulla capacità di guida, poiché in tal modo viene sanzionata penalmente anche la condotta del soggetto che, non riportando alcuna sintomatologia ricollegabile all’avvenuta assunzione, si pone alla guida senza provocare alcun pericolo di lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.
L’eliminazione del requisito, inoltre, presupponendo in via assoluta un giudizio di pericolosità alla guida del soggetto che ha assunto sostanze stupefacenti rispetto al soggetto non assuntore, ha determinato l’effetto di trasformare l’illecito da reato di pericolo concreto a reato di pericolo astratto, senza che l’anticipazione della tutela risultasse ancorata ad una giustificazione causalmente fondata sul criterio dell’id quod plerumque accidit.
Risulta violato anche il canone della proporzionalità in quanto attraverso tale scelta si fa ricorso ad uno strumento eccessivamente afflittivo e non strettamente indispensabile.
Con riferimento al principio di uguaglianza, la mancata verifica di cui sopra comporta l’assoggettamento a trattamento differente di situazioni uguali e, al contempo, l’assoggettamento al medesimo trattamento di situazioni diverse. Infatti, l’assoluta irrilevanza del requisito dell’alterazione psicofisica comporta l’applicazione della medesima sanzione tanto al conducente che si trovi in uno stato di alterazione effettivo, quanto a quello fisicamente e psicologicamente idoneo alla guida.
Emerge inoltre una disparità di trattamento rispetto a quello approntato dall’art. 186 C.d.s., che subordina la punibilità al superamento di un determinato tasso alcolemico (0,8 g), non essendo l’assunzione di alcol di per sé sola sufficiente ad integrare la fattispecie penalmente rilevante.
Con riferimento all’art. 25 co. 2 Cost., sussiste la violazione del principio di legalità sorto il duplice profilo della tassatività e della determinatezza della fattispecie. Infatti, l’assenza di requisiti ulteriori rispetto alla mera assunzione finisce per esporre il consociato a uno stato di obiettiva, insuperabile incertezza circa la rilevanza penale della sua futura condotta di guida, non essendovi parametri oggettivi a cui fare riferimento per orientarsi circa le conseguenze della propria condotta.
Sussiste, altresì, la violazione del principio di offensività e materialità del fatto, ritenendosi in particolare che la soppressione del requisito, abbracciando la logica punitiva del “diritto penale d’autore”, abbia comportato l’incapacità della norma di selezionare, fra tutte le condotte astrattamente sussumibili nel fatto tipico, solo quelle realmente idonee a ledere il bene giuridico della tutela della sicurezza stradale e della incolumità degli utenti. Al contrario, la contravvenzione è fondata sulla presunzione totale di maggiore pericolosità alla guida del soggetto assuntore rispetto al non assuntore, senza che l’Autorità Giudiziaria possa valorizzare altri e diversi elementi per valutare in concreto la condotta dallo stesso tenuta e la sua pericolosità.
Quanto all’art. 27 co. 3 Cost., la sanzione apprestata a fronte di un fatto inoffensivo priverebbe la pena anche della sua finalità rieducativa, poiché una pena sproporzionata non potrà mai essere avvertita come “giusta” dal reo e, conseguentemente, non potrà mai gettare le basi per alcun percorso rieducativo.


 
DIRITTO AMMINISTRATIVO
RAPPORTO TRA LIBERTA' DI CULTO E DISCIPLINA URBANISTICA

 

Ricognizione
L’esercizio del culto, in forma individuale o associata, in privato o in pubblico, è oggetto di un diritto inviolabile o, più precisamente, di una “libertà”, riconosciuta a “tutti” dall’art. 19 Cost. – nonché, in termini analoghi, dall’art. 9 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo e dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – e intimamente connessa alla “pari dignità sociale” di ciascuno nonché alla necessità di assicurare le condizioni per il “pieno sviluppo della persona umana” cui fa riferimento l’art. 3 della Carta.
Anche per questo, la giurisprudenza costituzionale è da tempo consolidata nell’affermare, da un lato, che il “principio supremo” della laicità dello Stato è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Costituzione, e dall’altro nel precisare che questo implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (Corte cost. n. 203/1989).
Ne deriva, tra l’altro, che le P.A. sono tenute a mantenere una leale collaborazione con le varie confessioni e con le associazioni mediante le quali la libertà religiosa viene esercitata, i cui rappresentanti sono a loro volta chiamati a interagire con i pubblici poteri secondo buona fede, come previsto dall’art. 1, co. 2 bis, L. n. 241/1990.
Anche il potere di pianificazione urbanistica, in quanto potere ampiamente discrezionale, deve essere esercitato nel rispetto del predetto principio; e, quindi, sulle autorità pubbliche grava il duplice dovere, in positivo, di prevedere e mettere a disposizione spazi pubblici per le attività religiose e, in negativo, di astenersi dal frapporre ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e dal discriminare le confessioni nell’accesso a quelli pubblici (Corte cost., n. 254/2019).
La prospettiva è invece differente quando viene in rilievo un potere a esercizio doveroso e contenuto vincolato qual è quello di repressione degli abusi edilizi (cfr. Cons. St., n. 7170/2024). Occorre infatti rilevare che la stabile destinazione di un edificio a luogo di culto presenta un impatto sull’ordinato sviluppo dell’abitato e deve quindi avvenire nel rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia, in cui trovano composizione i vari interessi pubblici e privati che si rivolgono al territorio quale terminale delle attività umane.
La libertà di culto sarebbe infatti “malintesa” se si pretendesse d’invocarla per sottrarsi al rispetto della disciplina urbanistica del territorio e/o per giustificare una destinazione urbanistica di un immobile diversa da quella impressa dai pubblici poteri nell’esercizio dell’attività conformativa in materia urbanistico-edilizia.

 
 
DIRITTO TRIBUTARIO
IMU- IMMOBILI MERCE  
Corte Cost., sent., 17 aprile 2025, n. 49

Massima
I “beni merce” costituiscono un valido indice di capacità contributiva ai fini IMU, in quanto rileva la disponibilità giuridica del bene, indipendentemente dal suo effettivo utilizzo.

La pronuncia
Con la sentenza n. 49 del 17 aprile 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità sollevate sull'art. 13 del d.l. n. 201/2011 (convertito in l.n. 214/2011), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost.

Il caso trae origine da un ricorso di una società contro un avviso di accertamento IMU relativo all'anno 2012, riguardante immobili destinati esclusivamente alla vendita, i cosiddetti "beni merce", e non concessi in locazione. La Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio aveva rimesso la questione alla Consulta, ipotizzando un contrasto con i principi costituzionali di capacità contributiva, uguaglianza tributaria e ragionevolezza, anche alla luce delle normative europee in materia di concorrenza.
La Corte ha respinto le censure, ribadendo che l'IMU è un'imposta patrimoniale il cui presupposto è il possesso di un immobile, indipendentemente dalla sua redditività. L'elemento decisivo è la disponibilità giuridica del bene: ciò che rileva è l'astratta possibilità di esercitare i diritti connessi al possesso, non il loro concreto utilizzo, che resta una libera scelta del titolare.
Secondo i giudici costituzionali, il legislatore dispone di un ampio margine discrezionale nell'introdurre, modulare o modificare benefici e agevolazioni fiscali, purché nel rispetto del limite della non manifesta irragionevolezza (come già affermato Cort. Cost. 72/2018).
Il principio espresso trova coerenza anche con il precedente orientamento della stessa Consulta che, con la sentenza n. 60/2024, aveva chiarito che l'IMU è un'imposta sul patrimonio immobiliare, avente come presupposto il possesso, la proprietà o la titolarità di un altro diritto reale e che un immobile non costituisce un valido indice di capacità contributiva solo se sia inutilizzabile nonostante uno sforzo diligente per tornarne in possesso (come in caso di occupazione abusiva denunciata all'autorità giudiziaria).
In definitiva, dunque, la Consulta, con la pronuncia in commento, ha confermato che il solo fatto di poter disporre di un immobile costituisce un valido indice di capacità contributiva, giustificando l'obbligo di versamento dell'IMU anche per gli immobili merce non locati, senza che rilevi l'effettiva generazione di reddito.

 
IVA- OPERAZIONI OGGETTIVAMENTE INESISTENTI 
Cassazione civile , sez. trib. , 27/03/2025 , n. 8130
Massima

L'Amministrazione finanziaria ha l'onere di provare l'oggettiva fittizietà del fornitore e la consapevolezza da parte del destinatario che l'operazione si inserisca in un’evasione dell'imposta; invece, grava sul contribuente l’onere di dimostrare di aver impiegato la diligenza esigibile da un operatore accorto, secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in relazione alle circostanze della fattispecie specifica. Non può attribuirsi rilievo ad elementi come «la regolarità formale di fatture e pagamenti, che ne sono pacificamente privi, essendo anzi coessenziali al meccanismo illecito».

Ricognizione
L'Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza che accoglieva l'opposizione della società contribuente contro un avviso di accertamento per l'anno 2010, relativo a costi per operazioni ritenute inesistenti. La società aveva contestato la motivazione dell'accertamento, basata su una verifica effettuata su un'altra società (FG) e affermato l'effettività delle operazioni dimostrata da fatture e pagamenti tracciabili. La Commissione Tributaria Regionale ha rigettato l'appello dell'Agenzia, non avendo quest'ultima fornito la prova della consapevolezza della ricorrente circa l'inoperatività della FG.



Giudizio di legittimità
Nel caso di specie l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto che le fatture emesse riguardassero operazioni inesistenti. La giurisprudenza (Cass. 4335/2016) ha chiarito che sono tali le ipotesi di:
  • mancanza assoluta dell'operazione fatturata,
  • ma anche ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale.
Ad esempio, rientra nella suddetta nozione l'ipotesi di inesistenza soggettiva ove, pur risultando i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell'impresa utilizzatrice delle fatture – che ha regolarmente versato il corrispettivo – venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto documentato dalla fattura siano falsi (Cass. 6378/2006; Cass. 29467/2008; Cass. 7672/2012; Cass. 23074/2012).
Sotto il profilo probatorio, non spetta al contribuente provare che l'operazione sia effettiva, ma grava sull'Amministrazione, che adduce la falsità del documento, dimostrare che l'operazione commerciale, oggetto della fattura, non sia mai stata posta in essere (Cass. 27341/2005; Cass. 12802/2011; Cass. 20786/2013). Come vedremo nei prossimi paragrafi, la prova è raggiunta allorché l'Amministrazione fornisca validi elementi che possono anche assumere la consistenza di attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice per sostenere che alcune fatture siano state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie. In tal caso, passerà sul contribuente l'onere di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni contestate (Cass. 21953/2007; Cass. 15395/2008; Cass. 2847/2008).
Per completezza espositiva, si fa menzione delle frodi carosello, esse sono caratterizzate dal fatto che la merce acquistata dal contribuente – che esercita il diritto alla detrazione IVA – proviene, in realtà, da un soggetto diverso da quello interposto (o "fantasma", il cosiddetto “missing trader”) che ha emesso la fattura incassando l'IVA ed omettendo poi di versarla all'Erario (in tal senso, Cass. 4335/2016). L’Amministrazione finanziaria deve fornire la prova dell’interposizione fittizia della società “cartiera o fantasma” nell’operazione commerciale che è stata effettivamente posta in essere dal cessionario/committente con un diverso soggetto - cedente/prestatore - il quale non figura nella fatturazione. L'Amministrazione è tenuta a dimostrare:
  • gli elementi di fatto della frode attinenti al cedente, ovvero la sua natura di "cartiera",
  • l’inesistenza di una struttura autonoma operativa
  • il mancato pagamento dell'IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento
  • la connivenza nella frode da parte del cessionario.
Tale prova può avvenire anche con presunzioni semplici, purché dotate del requisito di gravità, precisione e concordanza. Mentre, spetta al contribuente (cessionario/committente), che ha portato in detrazione l'IVA, fornire la prova contraria che l'apparente cedente/prestatore non è un soggetto interposto e che l’operazione è stata "realmente" conclusa con esso. A tal fine, non è sufficiente:
  • la regolarità della documentazione contabile esibita
  • e la mera dimostrazione che la merce sia stata effettivamente consegnata
  • oppure che sia stato effettivamente versato il corrispettivo.
Infatti, «si tratta di circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perché relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sé a dimostrare l'estraneità alla frode» (Cass. 17377/2009; Cass. 867/2010).
Il pagamento con mezzi tracciabili non costituisce prova dell’esistenza dell’operazione.
L’Agenzia delle Entrate lamenta la violazione della disciplina sull'imposta sul valore aggiunto (DPR 633/1972) e, in particolare, degli articoli 19 in materia di detrazioni e 21 sulla fatturazione delle operazioni; lamenta, altresì, la violazione della disciplina delle presunzioni (art. 2729 c.c.). La difesa erariale sottolinea che la produzione del pagamento avvenuto con mezzi tracciabili non rappresenta una prova idonea a dimostrare l’esistenza dell’operazione in quanto anche l’apparente pagamento potrebbe celare una frode. Inoltre, la decisione gravata non ha considerato altri elementi come la circostanza che la ditta fornitrice aveva fatturato oltre 100 mila euro (per 21 mila euro a titolo di IVA) ancor prima di aprire la partita IVA e che aveva cessato l’attività nove mesi dopo l’apertura; infine, non sono state considerate né l’omessa presentazione delle dichiarazioni né la totale omissione dei versamenti delle imposte.
La Suprema Corte considera fondata la doglianza.
La corte richiama la giurisprudenza unionale e nazionale con riferimento al riparto dell’onere della prova in caso di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti.
L’amministrazione finanziaria:
  • è tenuta a provare che il cessionario fosse a conoscenza (o avrebbe dovuto esserlo) del fatto che la cessione si inseriva in un’evasione dell’IVA,
  • mentre non deve provare anche la partecipazione all’evasione stessa (Corte UE Ppuh C-277/2014; Corte UE Bonik C-285/2011).
Secondo la giurisprudenza nazionale, se l'Amministrazione finanziaria contesta che la fatturazione riguardi delle operazioni soggettivamente inesistenti – sia esse inserite o meno nell'ambito di una frode carosello – ha l'onere di provare:
  • l'oggettiva fittizietà del fornitore
  • e la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in un’evasione dell'imposta.
La suddetta prova può essere fornita, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, «che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l'ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente». Una volta fornita tale prova, allora, grava sul contribuente la prova contraria, ossia deve dimostrare di aver impiegato la diligenza esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in relazione alle circostanze della fattispecie specifica (Cass. 15369/2020; in ipotesi di "reverse charge" Cass. 4250/2022). Inoltre, non può essere riconosciuto il diritto alla detrazione da parte del cessionario non solo nel caso in cui vi sia la prova del suo coinvolgimento nella frode fiscale ma anche quanto vi sia la dimostrazione della mera conoscibilità «dell'inserimento dell'operazione in un fenomeno criminoso, volto all'evasione fiscale, la quale sussiste ove il cessionario, pur essendo estraneo alle condotte evasive, ne avrebbe potuto acquisire consapevolezza mediante l'impiego della specifica diligenza professionale richiesta all'operatore economico, avuto riguardo alle concrete modalità e alle condizioni di tempo e di luogo in cui si sono svolti i rapporti commerciali, mentre non occorre anche il conseguimento di un effettivo vantaggio» (Cass. 13803/2014, Cass. 13545/2018).
L’Erario può avvalersi di presunzioni semplici
La prova gravante sull'amministrazione finanziaria può consistere in indizi che risultino attendibili, anche tratti da indagini penali, purché siano idonei ad integrare una presunzione semplice (Corte Giust. Mahagèben e David, C-80/11 e C-142/11 e Corte Giust. Kittel, C-439/04; Cass. 14237/2017). Come abbiamo già detto, l’Erario può dimostrare la soggettiva insussistenza delle operazioni mediante presunzioni. A tal proposito, gli ermellini evidenziano che il giudice,  al fine di rendere perspicuo il criterio logico su cui ha fondato la selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento composto da due momenti valutativi:
  • prima, la valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, considerati singolarmente, presentino una positività parziale (o almeno potenziale) di efficacia probatoria;
  • dopo, la valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, la quale non potrebbe raggiungersi considerando atomisticamente uno (o alcuni) di essi.
Alla luce di quanto esposto, è censurabile in sede di legittimità la decisione con cui il giudicante abbia negato il valore indiziario agli elementi acquisiti senza accertare se essi, benché privi di valore indiziario considerati singolarmente, non siano capaci di acquisirla se valutati globalmente (Cass. 9059/2018).
Le presunzioni semplici sono ammissibili solo se dotate dei requisiti di precisione, gravità e concordanza (art. 2729 c.c.). La giurisprudenza ha così circoscritto i tre requisiti di cui sopra:
  • la precisione è riferita al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica,
  • la gravità riguarda il grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto,
  • la concordanza – rilevante solo in caso di pluralità di elementi presuntivi – richiede che il fatto ignoto sia desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza.
Il giudice deve, in prima battuta, analizzare tutti gli elementi indiziari e scartare quelli irrilevanti e, successivamente, valutarli per verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva. A tal proposito, si parla di “convergenza del molteplice”, che non è raggiungibile nel caso di un’analisi dei singoli elementi considerati separatamente (analisi atomistica). Pertanto, il soggetto che ricorra in Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. (ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) deve allegare che il giudice di merito abbia fondato il proprio ragionamento presuntivo su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza o abbia fondato la presunzione su un fatto storico non grave, preciso e concordante. Invece, la censura non può limitarsi alla diversa ricostruzione delle circostanze fattuali, senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma.

Esito
È accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate
Secondo la Suprema Corte, la Commissione Tributaria Regionale non si è attenuta ai suesposti principi, poiché:
  • da una parte, ha omesso di valutare, prima singolarmente e, poi, unitariamente, tutti i numerosi elementi addotti dall’amministrazione finanziaria a sostegno dell'inesistenza soggettiva delle operazioni, in particolare con riferimento al fatto che nella sede della ditta si è fisicamente riscontrata l'assenza di qualsiasi attività commerciale;
  • dall’altra parte, ha attribuito rilievo determinante ad elementi, quali la regolarità formale di fatture e pagamenti, che ne sono pacificamente privi, essendo anzi coessenziali al meccanismo illecito.
Pertanto, viene accolto il ricorso promosso dall’Agenzia delle Entrate e la decisione gravata viene cassata con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado per nuovo esame e per le spese.

 
CONTABILITA' PUBBLICA 
RAPPORTO TRA CONFISCA PER EQUIVALENTE E RESPONSABILITA' AMMINISTRATIVO- CONTABILE
Ricognizione
La Sez. Lazio deve pronunciarsi sulla difesa del convenuto volta ad ottenere la decurtazione dalla somma oggetto di condanna contabile di una entità pari a quella precedentemente oggetto di confisca per equivalente ai sensi dell’art. 322 ter c.p., così come pronunciata nell’ambito di procedimento penale in cui l’interessato era stato destinatario di sentenza di applicazione della pena su richiesta.
I giudici contabili evidenziano che, sebbene l’azione per responsabilità amministrativa verta sui medesimi fatti del parallelo procedimento penale, la stessa si caratterizza per un petitum di tipo risarcitorio, essendo tesa ad accertare la sussistenza del danno erariale patito dall’Amministrazione della Difesa, in conseguenza di condotte di sottrazione del carburante JP-8 presso il deposito militare di Pratica di Mare da parte dei militari convenuti.
In particolare, il consolidato orientamento della Corte dei conti osserva che la confisca penale ha natura e finalità ontologicamente diverse (in dettaglio natura di pena accessoria con conseguente finalità sanzionatoria) rispetto alla condanna risarcitoria pronunciata nella sede giuscontabile, circostanza che escluderebbe la possibilità di scomputo della somma già confiscata (Corte dei conti, Sez. II, app., n. 130/2024).
Ritiene tuttavia il Collegio che tale orientamento meriti di essere rimeditato alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass., n. 34356/2023).
Nel riaffermare che la confisca disciplinata dall’art. 322 ter c.p. costituisce una sanzione in forza della sua natura punitiva e “persegue lo scopo di ripristinare la situazione economica del reo qual era prima della violazione della legge penale, privandolo delle utilità ricavate dal crimine commesso”, evidenzia una esigenza di coordinamento con l’azione giuscontabile.
In particolare, ad avviso della Cassazione, nel determinare l’ammontare pecuniario sino a concorrenza del quale confiscare in sede penale i beni del condannato è necessario tenere conto della già avvenuta totale o parziale restituzione o corresponsione all’ente danneggiato di eventuali somme di denaro, da scomputare dal totale del profitto del reato.
Una tale lettura coordinata ha ricevuto, peraltro, avallo normativo per effetto della disposizione dell’art. 19, co. 1, d.lgs. n. 231 del 2001, contenente la clausola per la quale, in caso di responsabilità degli enti, la confisca deve essere disposta soltanto per quella parte del profitto del reato presupposto che non possa essere restituito al danneggiato.
Tale approdo ermeneutico deve ritenersi operante anche in senso contrario, portando a concludere che l’azione restitutoria trovi limite nella disposta confisca. Infatti, riconoscere un danno risarcibile in favore dell’Erario violerebbe il principio di effettività del danno. Tale ultimo principio impone che, nella quantificazione del pregiudizio, si faccia applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno, tenendo conto anche delle conseguenze positive che l’eventus damni ha prodotto nella sfera giuridica del danneggiato.
Nel caso della responsabilità amministrativo contabile, peraltro, l’elisione compensativa tra conseguenze positive e negative trova espresso riconoscimento legislativo (art. 1, c. 1-bis, l. n. 20 del 1994) con un’accezione particolarmente ampia dei vantaggi da prendere in considerazione nell’operazione di bilanciamento, sia sotto il profilo oggettivo (tutti i vantaggi comunque conseguiti) sia sotto quello soggettivo (vantaggi ricadenti nella sfera giuridica non solo dell’amministrazione di appartenenza, ma anche di altra amministrazione o della comunità amministrata), purché scaturenti dal medesimo fatto generatore delle conseguenze pregiudizievoli.